Questo articolo di Lucio Stanisci è tratto dalla rivista trimestrale Punti Fermi. Pubblicato con il permesso dell’editore.
Non mi piaceva la sensazione di paura e umiliazione che stavo provando mano a mano che mi avvicinavo alla casa di campagna dei miei genitori. Se solo non avessi avuto quegli stramaledetti rimorsi di coscienza, forse, tenendo duro ancora un po’, avrei potuto dimostrare a tutti che non ero un perdente…
La porta era socchiusa e le luci spente. Anche quelle del giardino. Persino il vento quella sera era insolito. Alla soglia dell’ingresso il mio cuore sembrava volesse scoppiare, tanto batteva forte.
La casa della mia infanzia, adesso, mi appariva come lo scenario di un film horror in cui io ero la vittima designata da fare a pezzi. Certo, l’avrei meritato.
Quando, alcuni anni prima, ero andato via di casa, col mio gruzzolo in tasca e sicuro di essermi reso odioso ai miei, mai e poi mai avrei pensato di tornare. Mi ripugnava l’idea della famiglia; mi sentivo stretto e continuamente giudicato a causa del mio stile di vita. Così avevo deciso di andarmene il più lontano possibile.
Ma il mondo che mi stava aspettando non era migliore di me. Era fatto di individui senza scrupoli che si prendevano gioco degli altri usando i loro corpi e i sentimenti per poi buttarli via quando non servivano più. Se ci tenevi alla tua pelle dovevi essere furbo e svelto. Solo che loro erano stati più furbi e più svelti di me.
Per scampare l’inferno dei debiti e degli strozzini mi ero creato un giro di disgraziati pronti a tutto per una dose. Era un circolo vizioso che mi trascinava alla disperazione. Cominciai a provare disgusto per la vita che facevo. Avrei dato qualsiasi cosa per potermene liberare! Ma non avevo più niente: né soldi, né reputazione, né dignità. Per di più quello che avevo disprezzato della mia famiglia, ora lo desideravo come mai prima.
Sognavo di tornare dai miei, ma avevo fatto loro del male e me ne vergognavo. Sarebbe bastato dirgli: “Mi dispiace, ho fatto un gran macello, scusatemi, se potete”? Fu tutto ciò che riuscii a balbettare alla segreteria telefonica di mio padre per dirgli che sarei tornato.
Perché mai, allora, mi stupivano quel buio e quel silenzio della bella villa di famiglia?
Quando si accesero le luci della sala da pranzo, non riuscivo a credere ai miei occhi. C’erano proprio tutti! Amici d’infanzia, parenti, addirittura i vicini! Mio padre e mia madre al centro. E non avevano il coltello tra i denti! Si erano mobilitati con tanto di fischietti e uno striscione: “Bentornato a cas…”
Non ebbi il tempo di finire di leggerlo che mio padre, davanti a tutti, mi si buttò al collo abbracciandomi forte. Piangemmo insieme, stretti l’uno all’altro. Roba da far sembrare una farsa la trasmissione della Carrà.
Prima di quella sera non avevo saputo cosa fosse una festa. Conoscevo i rave party e le notti sfrenate. Ma non conoscevo il perdono e la gioia che ne deriva. Non lo avevo chiesto a nessuno, il perdono, fino a quel giorno.
Essere riaccolto, tenuto forte da un padre che non aveva mai smesso di amarmi e che ora non mi rinfacciava niente, ma che solo piangeva dalla gioia di rivedermi, fu la vera festa della mia vita.
Quella sera tirammo fino al mattino e quando andai a letto esausto, mi tornò alla mente una storia che avevo letto da bambino e che avevo sempre considerato una favola: era scritta nel Vangelo di Luca, nel capitolo 15. Ed era vera.