Quest’articolo è stato scritto da Andrea Thomas per la sua mailing list chiamata “Sapere per Fare“. Usato con permesso.
“Non è bene che l’uomo sia solo, Io gli farò un aiuto conveniente a lui…” (Genesi 2:18)
“Due valgono meglio di uno solo, perché hanno una buona ricompensa per la loro fatica; se infatti cadono, l’uno rialza l’altro; ma guai a chi è solo e cade, perché non ha nessun altro che lo rialzi!” (Ecclesiaste 4:9-10)
“La solitudine fa male…la percentuale di infarti è più alta tra i ‘single’, oltre che tra i fumatori e gli ipertesi.” (TG3 Salute, 16.11.1999)
“La Squadra Ministeriale” nel Vecchio Testamento
Vediamo nel Vecchio Testamento che il Signore ha sempre avuto la tendenza a mandare le persone “accompagnate” invece che sole: questo è evidente anche dalle parole della Legge, Deuteronomio 19:15, “Un solo testimone non basterà ad incolpare alcuno per qualsiasi crimine o peccato abbia commesso; il fatto sarà stabilito sulla deposizione di due o di tre testimoni.”
Troviamo assieme Abramo e Lot, Mosè e Aronne, Mosè e Giosuè, Giosuè e Caleb, Debora e Barak, Davide e Gionatan, Shadrac, Mescac ed Abednego, eccetera. Vediamo invece una certa vulnerabilità quando le persone sono sole a prendere decisioni vitali (Gedeone, Saul, Salomone, Giosafat, e così via.).
Nel Nuovo Testamento, vediamo che Gesù aveva l’abitudine di mandare in “gita ministeriale” i Suoi discepoli a due a due (Luca 9:2 e 10:1). Anche nel libro degli Atti, poi, troviamo l’abitudine a girare “in coppia”, sia di ministri che di famiglia:
“Barnaba, preso Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece, sceltosi per compagno Sila, partì, raccomandato dai fratelli alla grazia di Dio.” (Atti 15:39-40)
“Non abbiamo noi il diritto di condurre attorno una moglie, che sia una sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cefa?” (I Cor. 9:5)
Tanto per cominciare, sembra chiaro che Dio ci abbia fatti per vivere assieme agli altri. Anche se la vita di Paolo è una chiara contraddizione del vincolo matrimoniale, eppure lui sentì la necessità di non girare da solo, ma di appoggiarsi ad altri conservi, a volte per discepolarli, a volte per riceverne aiuto e sostegno.
Non dobbiamo dimenticare che lo stesso Paolo era stato a sua volta scelto come compagno di missione da Barnaba (vedi Atti 11:19-30).
Quindi bisogna affermare che Dio ci ha fatti “con il DNA di lavorare in squadra”, e se tante volte noi questo non lo comprendiamo o non lo viviamo, e per nostra miopia.
Vantaggi del lavoro di squadra
Intanto, una squadra significa persone diverse, caratteri differenti, doni complementari; significa quindi che ciò che uno potrà dare verrà ampliato dall’altro o dagli altri, con ministeri o sfaccettature diverse (Efesini 4:11 prevede cinque diversi tipi di servizio, oltre alle differenze proprie del carattere personale di ognuno di noi).
Una squadra significa anche la possibilità di lavorare a turno, di darsi il cambio, e quindi di non sfiancarsi perché si lavora da soli; certo, questo significa collaborazione, comprensione e co-progettazione, cose non sempre facili da aversi, che però se imparate saranno del massimo beneficio.
Una squadra vuol dire anche la possibilità che uno rimanga in un luogo quando, a lavoro pressoché terminato, gli altri se ne vanno altrove; questo è il caso di Sila ad Antiochia, vedi Atti 15:22 e 32-35, e di Aquila e Priscilla ad Efeso (Atti 18:26).
La squadra implica anche la possibilità di modellarsi e correggersi a vicenda (“come il ferro forbisce il ferro, così l’uomo affila il volto del suo compagno”, Proverbi 27:17); questo è chiaro anche nei rapporti tra Paolo e Pietro (Gal. 2:11).
Nessuno di noi ha ancora finito di imparare, e lavorare assieme è un’ottima scuola di formazione, per apprendere l’uno dall’altro.
E’ anche un momento quando ci si impara ad apprezzare di più, come dice Pietro stesso di Paolo (ed avrebbe potuto invece lagnarsi di lui!) “Come il nostro caro Paolo vi ha scritto…” (2 Pietro 3:15-16).
Problemi del lavoro di squadra
Praticamente, sono l’altra faccia dei vantaggi: il voler cercare di fare tutto da soli perché non si ritengono gli altri all’altezza potrà anche essere vero agli inizi, ma va mitigato con il discepolato e la realizzazione che nessuno di noi è immortale o ognipresente (2 Timoteo 2:2).
Il fatto di lavorare sempre soli non ci aiuta a riposarci, e ci fa alla fine sentire indispensabili, come Isaia quando Dio dovette fargli capire che “se ne era lasciato un residuo di altri settemila come lui” (I Re 19:10, 14 e 18).
Il non saper delegare significa che il lavoro, in pratica, non farà progressi, perché è limitato alla nostra presenza (Tito 1:5).
Infine, la mancanza di volersi confrontare significa una nostra difficoltà a rapportarci agli altri, un sentirci superiori ed indipendenti, quasi che sentiamo di poter dire l’uno all’altro: “Io non ho bisogno di te” (I Corinzi 12:21).
“Chi ama la correzione ama la conoscenza, ma chi odia la riprensione è uno stupido” (Proverbi 12:1).
Andrea Thomas